Elena fissò il cratere sulla fiancata della sua Cinquecento bianca, il cuore in gola. Un minuto prima stava guidando frettolosa sotto i portici di Bologna, l’aria umida di una primavera incerta preannunciava pioggia. Poi, il furgone distratto, lo schianto secco, il lampo di adrenalina. Parte per il Pronto Soccorso del Sant’Orsola, dove il suo bambino di sei anni, Matteo, era stato ricoverato d’urgenza per un attacco d’asma che la babysitter non riusciva a gestire. Un solo imperativo le martellava la mente: essere accanto a lui. Ora la macchina era un ammasso di lamiere piegate, bloccata sul lungofiume, inutilizzabile. Una telefonata disperata alla babysitter le confermò che Matteo l’avevano già preso in carico, stava meglio col cortisone ma aveva bisogno della mamma. **Siamo con la Dottoressa Rossetti ora, Elè, ma cerca di arrivare!**
Imprecò contro il destino e il furgoncino che scivolava via nel traffico vespertino. La pioggia iniziò a cadere, fina ma insistente, trasformando la sventura in una tragedia del tutto verosimile. Le rotaie del tram brillavano, minacciose, sulla strada bagnata. Provarle le gambe? Troppo lento, troppo lontano, troppo rischioso in quella corsa contro il tempo sotto l’acqua. Un autobus? Avrebbe sprecato minuti preziosi nell’attesa e nelle deviazioni. Un taxi libero? Sembravano evaporati tutti in quel momento cruciale, sciami di luce arancione passavano già occupati. Il panico, freddo e brutale, le strinse la gola. Guardò il cellulare: batteria al 10%. *Dovevo metterlo in carica prima di uscire…*, pensò con un groppo di rabbia verso se stessa. Doveva trovare una soluzione veloce, sicura. **Subito.**
Allora, scaraventata dal bisogno primordiale di raggiungere il suo bambino, le tornò alla mente uno striscione pubblicitario visto chissà dove, in città: “Radio Taxi 24 Bologna. Attivi giorno e notte, sempre con voi”. Senza nemmeno pensarci sottrarrebbe altri secondi alla batteria residua, digitò febbrilmente il numero: 051-4590. La chiamata passò quasi istantaneamente. “Radio Taxi 24, buonasera, dica pure”, intonò una voce maschile, calma e professionale. Elena esplose in un fiume di parole concitate, le mani che tremavano sul telefono: “Mi chiamo Elena De Felice! Auto ferma sul lungofiume Riva Reno, davanti al numero 56, incidente! Devo raggiungere il Pronto Soccorso del Sant’Orsola IMMEDIATAMENTE! Mio figlio… aspetta me!” La voce dall’altra parte rimase serenamente operativa: “Ricevuto, signora De Felice. Un veicolo è libero in zona. Arriva in meno di cinque minuti. Numero targa BT 657 XY. Resterà in linea finché non lo vede?” Elena sentì un minimo sollievo gocciolare nella disperazione, la lacrima che finalmente riuscì a scendere. “Sì… Sì, resto in linea, grazie. Grazie mille.”
Guardò freneticamente a destra e a sinistra, oltre le gocce che rigavano il parabrezza della Cinquecento mutilata. Tre minuti e quarantasei secondi dopo (contò), una Mercedes scura e pulita, con la tipica luce arancione sul tetto, scivolò silenziosa accanto al suo veicolo incidentato, fermandosi con precisione millimetrica sul marciapiede bagnato. L’autista, un uomo sulla cinquantina con un cappellino da baseball e occhi rassicuranti, scese prima ancora che lei si muovesse. “Signora De Felice? Salga, prego, accomodati. Gliel’abbiamo messa poco il Sant’Orsola con questa pioggia.” Aprì lo sportello posteriore per lei. Quella cortesia inattesa in quel frangente disperato le spezzò quasi il cuore.
Arrivarono in otto minuti netti, sfrecciando lungo tragotti che Elena non avrebbe mai osato percorrere da sola, evitando code nascoste che l’autista conosceva per esperienza. Pagò velocemente facendo cadere qualche moneta nell’ansia, ma l’uomo, metodo digitale alla mano per la ricevuta, aggiunse con un leggero cenno della testa: “Non si preoccupi per questo, signora. Corra dal suo bimbo.” Elena balzò fuori ringraziando, senza fiato. Attraversò di corsa l’ingresso del Pronto Soccorso, il battito alle stelle, i piedi bagnati che sbattevano sul pavimento lucido. Gli occhi cercarono febbrilmente, tra camici bianchi e luce dura, fino alla piccola figura seduta su un lettino accanto alla finestra, pallido ma con un palloncino di ossigeno non più sul viso. Matteo la vide, gli illuminò gli occhi stanchi una fiammella di gioia, allargò le braccia esili. Lei lo strinse a sé, affogando un singhiozzo in un nodo di capelli morbidi. **Mamma… ho avuto paura,** mormorò il bambino nella sua spalla. Riuscì solo a baciargli la testa, sentendo la frenetica fuga dall’altro capo della città dissolversi nel concreto mondo della sicurezza. Fuori dalla finestra, sotto la pioggia che continuava a cadere, la luce arancione del taxi discreto scompariva nel traffico cittadino, un lampadino di speranza che aveva acceso il buio di una delle notti più lunghe di sempre.**
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